Nepal. Un mese e un giorno, e qualche altro giorno ancora.

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Nepal. Un mese e un giorno, e qualche altro giorno ancora.

Nepal. Un mese e un giorno.  Sono finalmente tornato in Asia, e vorrei poter dire ancora  una volta che ci sono finito per caso, come se in realtà non avessi speso gli ultimi due anni della mia vita aspettando di volare ancora una volta contro il tempo e guardare il mondo scorrere al contrario.

Nepal, un mese e un giorno, e non sono semplicemente in Asia. Sono esattamente nell’Asia che volevo, l’Asia di cui avevo sempre sognato, l’Asia che avevo visto nei migliori film di Bertolucci e nelle storie di Terzani, l’Asia nascosta in uno scrigno di montagne ed estesa come non ci fossero confini, l’Asia pura, l’Asia che vi aspettate io vi racconti, l’Asia con l’A maiuscola e i ghirigori attorno, l’Asia che ci vai e un mese e un giorno hai voglia di scrivere: “Asia. Un mese e un giorno”.

E invece è Nepal. Un mese e un giorno. E cammino per le strade, e mi guardo intorno, e invece che in un film di Bertolucci mi pare d’essere nel covo di Top Dollar, il folle piromane de “Il Corvo” che guardava la neve in una palla di vetro rimuginando le parole di suo padre:

Devi stare attento a quello che desideri perché potresti ottenerlo

Io giro e rigiro la mia palla di vetro e penso a quanto a volte si possa esser talmente ingenui da desiderare ciò che neanche si conosce. E mentre la finta neve scende verso il fondo, più per volontà di tornare al proprio posto che per attrazione della gravità, mi accorgo che di fronte ai miei occhi c’è solo Kathmandu.

Kathmandu. E soltanto un mese e un giorno.

Eppure ho già iniziato a banchettare nelle bettole più strampalate e ad andare sui tuk-tuk, sugli autobus e sui loro tetti quando non c’è posto. Ho già regolato i conti con l’inevitabile diarrea, stilato la mia top ten di cibi innocui, e scoperto di aver pagato tre volte il prezzo delle cose. E ho già incontrato forestieri venuti da ogni dove per vivere in una mecca su cui non si sono mai ricreduti e che non vorrebbero mai lasciare. Come loro, ho già camminato tra i viali infestati di luci e musica dal vivo in quella riserva per turisti che è Thamel, ho scoperto i posti più strategici di una vita notturna anticipata tra le 5 del pomeriggio e la mezzanotte per via del coprifuoco, e come loro sono andato in giro per la città a raccogliere capsule di bellezza e a controllare che la lista delle meraviglie di Lonely Planet corrispondesse, ancora una volta, al vero.

Le meraviglia di Kathmandu. Un mese e un giorno.

Belli i templi di Durbar Square, che nelle notti sacre brillano alla luce delle candele come l’antico cameo della nonna deposto tra i suoi mille pezzi di bigiotteria; bella la grande stupa di Bodanath, che pare un enorme magnete bianco nascosto in un pezzo di Londra del 1600 e avvolto da una nube di energia e preghiere, mentre turbine di rifugiati tibetani ne percorrono il perimetro, silenziosamente soli, ognuno con la sua anima, come che andando in cerchio continuo pensassero di raggiungere, un giorno, la loro terra santa; belle le gradinate del Pashupatinath che si stendono lungo il fiume Bagmati come un infinito proscenio a cielo aperto, e dove si consuma ad ogni passo, al profumo di incensi e di morti bruciati, l’intero dramma della vita; bello il tempio di Swayambhunath che sovrasta la città come una sorta d’Olimpo sospeso tra i fili intrecciati delle bandiere buddhiste  sotto lo sguardo incorruttibile di centinaia di scimmie che ne custodiscono l’eternità, mattone per mattone; bello il lago di Chobar, il fossato del palazzo reale, e tutte le pozze d’acqua che qui sembrano sempre custodire qualcosa che vorresti raggiungere, fosse essa una pagoda, un vecchio albero o anche solo una roccia; belle le montagne innevate che si levano oltre le nubi e si estendono oltre l’orizzonte, cosi grandi da sembrare il mare, la fine, l’altrove, il tempo impassibile, e tutto ciò che il mare per me è sempre stato.

E poi belle le belle di Kathmandu, che si nascondono nel branco insieme alle altre, ma non le vedi mai sputare o masticar tabacco, strillare, spingere, pulirsi il muso con il sari, maledire i cani di strada… pregano si, ma senza mai prostrarsi davanti agli dei, perché fingono di temere lo sguardo degli uomini… e che siano vecchie o giovani, che vestano il sari o i jeans,  vagano con gli occhi pieni di paura e meraviglia, come di chi guarda il mare ma sa di non saper nuotare; belli i bambini di Kathmandu, con piedi sempre scalzi e le mani sempre aggrappate al nulla. A scuola parlano l’inglese per chiedere di andare in bagno e di rientrare in classe, dormono o piangono in qualsiasi momento gli venga comandato, e portano addosso vestiti di ogni tipo, che se ne trovi una decina raccolti in una stanza, pare quasi di stare a una festa in maschera. Quelli strabici hanno gli occhi sempre tinti di nero, perché i genitori e le maestre possano sempre aver la sensazione di guardarli dritti nelle pupille. Urlano, silenziosamente, ma mai mentono, gli occhi dei bambini di Kathmandu. Ed anche loro nascondono segreti. Come ogni cosa qui.

I segreti di Kathmandu. Un mese e un giorno. E io, che da bambino entravo di nascosto nello studio di mio padre e mi divertivo a  sbucciare una matrioska fino al suo pezzo più piccolo per poi lasciarlo fuori, accanto alla grande madre. Ma i segreti di Kathmandu sono una cosa diversa. Qui dove l’oscurità è perenne e l’elettricità è ancora qualcosa per cui ingegnarsi, l’intera realtà è un mosaico di frammenti accesi sotto il bagliore di candele e neon, ed i segreti non sono che colore.  Colori violenti, colori vivi, colori piovuti dal cielo come rigurgiti di luce, colori che si attaccano alle cose e alle persone e ne celano l’anima. Ma se per un attimo riesci a leggere sui falli pietrificati di Shiva i segni del tempo passato senza farti distrarre dalle macchie di preghiere e curcumina, se riesci a seguire i lineamenti del volto di un sadhu oltre l’impasto delle sue tinte, se riesci a fissare l’orizzonte senza che la danza continua di vesti d’ogni colore ne increspi la prospettiva, se riesci a sentire nella pace dei giardini e delle ville, la puzza delle baracche di quelli che le ville le han costruite con le loro mani, se riesci a guardare fino in fondo agli occhi di ogni uomo o donna senza scambiar le loro pupille per la tika che portano in fronte, se per un istante riesci a seguire nella sua danza la fiamma di una candela senza fermarti a ciò che essa proietta nel buio…

Un istante a Kathmandu, dopo solo un mese e un giorno,per imparare che dove tutto è fluire senza scorrere, andare senza un cammino, semplicemente passare, lì giace senza quiete un grande segreto che è verità e paura, che è ragione di instancabile fuga.  Tutto fugge a Kathmandu, e passa dall’oscurità ai colori, dalla vita alla morte e poi ancora alla vita senza che nulla sembra valer la pena d’esser veramente vissuto, deciso, cambiato. La morte è fuga, la vita è fuga, la meditazione è fuga, la preghiera è fuga, le sacre pipe dei sahdu sono fuga cosi come la colla che sniffano i bambini di strada è fuga, la libertà di far festa tra le 5  e mezzanotte è solo fuga, il  velo che copre il seno dele donne lasciandone scoperta la pancia è fuga, le spezie piccanti non sono che fuga dallo scialbore del riso, il re è fuga dalla repubblica, e la repubblica è fuga dal re, la pace è fuga, e la guerra, la guerra è il traguardo di un viaggio senza coscienza che, senza coscienza, è già ricominciato. Una fuga. E mentre ogni cosa nasce per il solo scopo di finire, come un salice cresciuto in mezzo a un lago, l’eterna vanità della bellezza trova rifugio in ciò che ancora si ostina a scorrere e divenire: la storia, l’acqua, le idee, l’amore.

Ed io, che forse giocavo troppo con le matrioske di mio padre e ora mi dimeno per il mondo in cerca di nuove verità,  pensavo di aver raggiunto una meta ed ho trovato nel Nepal, o forse solo in Kathmandu, uno specchio troppo grande pieno di verità da cui fuggire.

Io, un mese, un giorno e qualche altro giorno ancora – per accorgermi di essere anch’io in costante fuga, in coda insieme a tutto il resto, i sari svolazzanti, i santoni dalla faccia tinta, le mucche sacre e i bimbi dagli occhi torchiati di nero. Mangio pannocchie di mais e tengo il gelato in freezer, dormo su lenzuola coperte d’arabeschi ed elefanti e canto canzonette francesi, leggo il Siddharta di Hesse ma penso a Dorian Gray, che credeva di fuggire il tempo mentre il tempo gli scorreva sull’anima, rinchiusa in una stanza. E mentre fuori dalla finestra la pioggia viene giù come non avesse mai smesso, penso alla solita prima pioggia di settembre che sul davanzale di casa batte la fine dell’estate, penso a mia zia Lidia che negli occhi non aveva segreti, ma aveva la forza di cento uomini, e sebbene io non l’abbia mai visto chiuderli, potrei giurarci, ha lasciato la casa apposto prima di farlo per sempre;  penso a  quelli che intanto la stanno piangendo chiedendosi perché, come si fa per coloro che al mondo non hanno lasciato nulla al mondo se non  crediti, penso a tutte le cose e le persone che sono parte di me, e alla stupida illusione che il mio andare altrove le renda immuni al tempo che passa.  E penso al Nepal e a quello che ne è stato, di solo un mese, un giorno e qualche altro giorno ancora. Sono venuto in Nepal perché volevo costruire futuro e ritornare un po’ nel passato. Sono venuto in Nepal credendo di attraversare una cupola di vetro saldata alle vette dell’Himalaya per cercare l’eternità di un mondo incontaminato. E sebbene io un po’ lo sospettassi, sebbene io non sia nuovo di queste strade, ho trovato con stupore i resti di un’apocalisse antica. Ora che i frammenti di vetro mi piovono addosso con l’ultimo sfogo dei monsoni, ora che cammino con le mani in tasca con la rassegnazione che non ci sia nulla che io possa cercare, solo ora, Kathmandu un mese un giorno e qualche altro giorno ancora dopo il mio arrivo, apprendo che il tempo non è reale, che eterno è ciò che non vuol essere, che non esiste confine tra la vita e la morte, tra prima e il dopo, tra il bene e male,  e che tutto semplicemente è – espressione del proprio essere.  

Perché al di là del mondo le cose cambiano e si consumano, ma di fronte ai miei occhi tra poche ora ogni cosa sorge e vive nell’immagine in cui l’ho lasciata. Perché allo stesso modo, ora voi leggete e pensate di conoscere chi sta scrivendo, ma i miei capelli crescono, la mia barba si infoltisce, ed una parte di me muore per dare vita, ancora una volta, ad una nuova coscienza.  Così, di fronte ai resti di un’apocalisse antica, di fronte ai frammenti di una bellezza che si nasconde, di fronte a un popolo che custodisce un grande segreto, io imparo a disimparare, imparo a guardare tutto con gli occhi nuovi, imparo a non cercare per poter trovare, imparo ad aspettare, imparo  a vivere ciò che io sono, in qualsiasi spazio, in qualsiasi tempo, senza fuggire.

Quando qualcuno cerca” rispose Siddharta ” allora accade facilmente che i suo occhi perdano la capacità di vedere ogni altra cosa, fuori di quella che cerca, e che egli non riesca a trovare nulla, non possa assorbire nulla, in sé, perché pensa sempre unicamente a ciò che cerca, perché ha uno scopo, perché è posseduto dal suo scopo. Cercare significa : avere uno scopo. Ma trovare significa: essere libero, restare aperto, non avere scopo. Tu, venerabile, sei forse di fatto uno che cerca, poiché, perseguendo il tuo scopo, non vedi tante cose che ti stanno davanti agli occhi.

O come disse un giorno mia zia a mia madre, mentre vestiva il corpo del fratello di suo marito, con le sue mani grandi e una strana dolcezza che non era solita mostrare: “Gira e rigirala come vuoi, se uno è onesto come un bambino, è bello pure con gli occhi chiusi”.

Asia, un mese un giorno, e qualche altro giorno ancora. E per quelli che me l’avevano chiesto: sto benegrazie.

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