- Aeroporto di Kathmandu. 48 ore di volo no-stop per raggiungere l’altra faccia del mondo. 48 ore di volo no stop per cambiarsi d’abito, ancora. Kathmandu-Doha-Roma-Philadelphia-Los Angeles, sempre più difficile Credo sia venuto il momento di imparare a nuotare. Per quello che mi aspetto ormai, il livello successivo sarà tornare in Italia attraversando l’Atlantico in barca a vela.
- Aeroporto di Kathmandu. Piove dentro. Sembra acqua che scorre lo strisciare delle ruote su cui i nepalesi in partenza trascinano le loro valigie rimpinzate di ogni bene, come non bastasse mai, mentre il rombo degli aerei e i fasci di luce che arrivano dalla pista mettono su tutto il necessario perché quel che è dentro si faccia tempesta. Piove qui dentro, e un vento impercettibile smuove e devasta le acconciature e le coscienze, mentre di là dei vetri le montagne guardano impotenti. C’è una porta su questa valle, un’antica porta che ho sognato per anni, una porta che non avrei mai immaginato di violare con così tanta facilità, uomini da un lato, donne dall’altro. Tutti con la loro tika rossa in fronte e un velo di seta bianca al collo, perchè qualsiasi sia la ragione del viaggio, essa non venga mai a mancare. Stringo il mio velo di seta bianca nascosto con pudore nella tasca del mio giubotto, mi guardo nei riflessi di ogni vetro cercando le tracce della tika che è stata posta sulla mia fronte il giorno prima, perchè seppure io me ne vada carico di zavorra, sebbene io abbia cercato di portarmi dietro tutto il possibile, me ne vado con il rimpianto aver lasciato cose, cose consumate, cose che mi mancheranno fino a rodermi l’anima, cose che ho lasciato in sospeso, cose che avrei voluto consumare, cose che avrei voluto scoprire. Me ne vado lasciando ogni ragione per andare e un fantasma che aspetta il ritorno. Me ne vado, ancora una volta, con un pezzo d’anima in meno.
- Il cielo d’inverno in Nepal è una distesa densa di massa azzurra in cui le stelle galleggiano come pesci in un acquario. La terra con le sue montagne sembra tirar fuori ogni arto che le sia disponibile pur di poterle toccare. Vorrei che prima di alzarmi in volo da questo posto il cielo e la terra si fondessero in una voce che possano ascoltare tutti per dirmi che sto facendo la cosa giusta. O forse adesso è una di quelle volte che basterebbe anche solo la parola del vicino sconosciuto.
- Aeroporto di Doha. C’è che quando ci si mette, la vita il destino o chi per lui monta sul nostro cammino segni talmente chiari che l’unico problema diventa sfuggirne il senso palese etichettandoli come coincidenza. Per una beffa simile, mi ritrovo a chiudere la mia avventura in Nepal rimettendo i piedi sugli stessi indentici passi che mi avevano portato fino a li. Stessi aeroporti, stessa compagnia, stesso cibo, stessi terminali… sono ancora a tre ore di fuso orario da Kathmandu, e questo è già diventato un viaggio nel tempo.
- Ho bisogno di comprare un libro, un libro di cui possa riconoscere la voce, un libro che parli la mia lingua.
- Chissà perché l’aeroporto di Roma ha un terminale dedicato a esclusivamente a Israele e USA che pare un bunker, e per accedervi ti fanno tante di quelle domande che ti viene quasi voglia di fare mea culpa anche per quelle quattro figurine che hai rubato da bambino? Perché poi, fermano sempre me? Qualcuno mi ha detto una volta, che sono come un tir di lumache. Certo è che ne ho visto così tante che la paura più grande che riesco ad avere al momento è verso la mia indifferenza per tutto ciò. Me ne sto seduto alla seggiola d’attesa dell’ufficio di polizia aeroportuale. Si passano e ripassano le mie carte di mano in mano. Passaporto italiano rilasciato in Francia e visto americano lasciato a Kathmandu. Staranno chiedendo agli amici del KGB. “Mica vi siete persi uno scapestrato capellone con un’amaca mimetica dei marines e un grosso libro sul Tibet in mano? No. Peccato! Un altro rubafigurine”.
- Aeroporto di Roma. Ho comprato un libro da Feltrinelli. A dirla tutta sono entrato in libreria correndo spedito verso ciò che sapevo di volere, ma per fortuna sono il solito strampalato che riesce a tirar già una pila di libri spostando anche solo dell’aria. “Come Attila” avrebbe detto mia madre, rimettendo a posto. Ma mia madre lì non c’era, ed è toccato a me rimettere tutto apposto. E mentre coprivo ogni immagine ed ogni storia con la copertina di un’altra, mi trovo davanti il libro di un amico che non ho mai incontrato, ma che mi è stato unico e fedele compagno durante questi anni di cammino. Il libro di un saggio che sa di no sapere, “il libro con il quale il grande giornalista che ha raccontato il mondo ha deciso di intraprendere un viaggio diverso, più intimo e personale, e di parlare a tutti noi per raccontarci una storia che ci riguarda da vicino…. Ma il viaggio che l’ha portato, da New York all’India, lungo le strade internazionali della medicina, sia tradizionale che alternativa, si è a poco a poco trasformato in un viaggio interiore, in una lenta discesa nella propria coscienza e nella propria anima. I due percorsi si sono sovrapposti e si sono conclusi simbolicamente davanti alla maestà senza tempo dell’Himalaya.” Tiziano Terzani, Un Altro Giro di Giostra.
“Posso pagare con bancomat? Mi spiace, se vuole ho rupie nepalesi. Si, sono alte le montagne. Ora California. Cercare? No, non vado a cercare niente. Grazie. Arrivederci.”
Ben ritrovato Tiziano. Andiamo a vedere l’America.
- I miei insegnanti non facevano che ripetermi che ero una persona intelligente che spesso ero con la testa tra le nuvole, e che così non sarei mai durato. Allora credevo che fosse più una loro frustrazione che un mio problema. Ora non lo so. Ma pagherei per sentire cosa direbbero adesso che tra le nuvole ci passo le giornate.
- Si comincia con l’inglese masticato a mo di chewing gum. Forse è il posto perfetto per me che mastico pure l’italiano purché ogni parola arrivi consumata almeno della metà del senso che si porta addosso.
- Nel mio zaino custodisco con gelosia un magnifico libro sul Tibet e delle Lung-ta. Ogni mezzora apro lo zaino per controllare che siano li, come temessi di vedermeli rubati o perdermeli, come fossero il mio bene più prezioso. Le lung-ta sono le bandierine di preghiera tibetane, piccoli rettangoli di stoffa di differenti colori infilati su uno spago su cui sono stampati versi sacri. I buddisti le usano perchè il vento passandoci attraverso sparga le benedizioni che esse contengono creando un’atmosfera di pace. Gli avventurieri e gli scalatori le usano per segnare il loro arrivo alla vetta, alla meta del loro viaggio. Le mie Lung-ta sono chiuse in una busta di plastica avvolta da un nastro rosso all’interno di un grosso libro sul Tibet. Ogni mezzora apro lo zaino per controllare che siano lì, sperando che solo guardandole mi riesca di immaginare il posto in cui finalmente potrò appenderle. Poi richiudo il libro, perché le loro benedizioni non vadano perdute.
- Philadelphia. L’intera diversità del mondo inscatolata in labirinti di ordine, controlli, regole. Mai visto un paese così debole. Mai avuto uno specchio così grande.
- Da qualche ora fisso due ragazzi dai tratti di una qualche etnia del Siam, seduti una fila avanti alla mia che lentamente pescano fuori da una busta di carta piccoli involtini di foglie di banana che aprono gelosamente al riparo da occhi indiscreti, inghiottendone il contenuto e rilasciando poi le fogli sul vassoio. Divido questo spettacolo insieme alla mia vicina, una signora italiana sulla quarantina che beve un bicchiere di vino lasciatoci dalla hostess insieme all’ennesimo set cena in porzioni compresse. La donna mi guarda come per dire “chissà che porcata stanno mangiando”. Senza neanche lasciare che si accompagni con le parole rispondo “Tortini di sticky rice e cocco, sono buonissimi”. La donna mi guarda stupito e ritorna a guardare il suo film. Credo che avesse letto sulla mia faccia il desiderio infinito che avevo di pescare da quella busta di carta il mio involtino di banana. Soprattutto, credo che mi avesse scambiato per un esaltato esotista. Ho iniziato a guardarla con pena. Ho sempre trovato difficile definire quando e come si inizi a sentirsi o meno parte di qualcosa. So soltanto che quella donna era quanto di più lontano dalla mia identità in quel momento. E che avrei dato ogni porzione del mio set cena per pescare in quella busta di carta il mio involtino.
- Siamo quasi arrivati. Il cielo della California è diverso, le stelle sembrano stare già tutte giù, mischiate tra le luci delle città che coagulano sulla terra come colate di lava bianca. Cosi il cielo sembra la terra, e la terra il cielo, e le montagne rocciose stanno gobbe con la testa bassa verso il deserto. Ed io vorrei ancora che tutto questo, la terra e il cielo e tutto ciò che si ostina a dividerli, si fondesse in un suono, una sola voce, una voce che possano ascoltare tutti, per dirmi che sto facendo la cosa giusta. Anche perchè sul mio vicino ho già perso ogni speranza. Ha smesso di parlarmi quando mi ha visto sbavare per delle foglie di banane piene di riso compresso.
- Ho comprato un libro da Feltrinelli, un libro che parla la mia lingua, un libro di cui riconosco la voce.
“È sempre così difficile giudicare il senso di quel che ci capita nel momento in cui ci capita e bisognerebbe imparare, una volta per tutte, a dare meno peso a quella distinzione – bene o male, piacere o dispiacere – visto che il giudizio cambia col tempo e spesso il giudizio stesso finisce per non avere alcuno valore…Finirai per trovarla la Via… se prima hai il coraggio di perderti.” (Terzani, Un altro giro di giostra).
Los Angeles, città degli angeli smarriti. E così sia.