“Ventotto giorni, sei ore, quarantadue minuti, dodici secondi. È allora che il mondo finirà”.
E’ cosi che dopo un introduzione fatta di affreschi musicali e visivi che possono tanto affascinare quanto irritare, con grande dispiegamento di mezzi tecnici e virtuosismi (che tra l’altro proseguono per tutto il film, dandogli una precisa marca stilistica), il fantastico irrompe in Donnie Darko rilevando l’apparenza della sua strana quotidianità. Subentra l’enigma della profezia, che spettatori e protagonista subiscono andando a tentoni per le articolazioni della vicenda, in cerca di risposte che alla fine lui, il ragazzo dal nome di supereroe alla fine trova, ma che noi, poveri testimoni degli eventi, potremo solo capire osservando inermi il loro compiersi.
Eppure questa tragica posizione deve aver appassionato molto il pubblico americano se è vero che è ai suoi spettatori che il giovane regista e sceneggiatore, Richard Kelly, deve il successo di questo suo film d’esordio. Scritto e prodotto nel 2001, il film è stato riproposto infatti al cinema nel 2004, nella versione director’s cut, più lunga di 20 minuti (oltre le 2 ore e un quarto della precedente), grazie soprattutto all’enorme supporto dei fan, per i quali la pellicola è diventata un vero e proprio film cult, con la sua miscela di esoterismo e fantascienza. In realtà se gli incassi al box-office furono, all’epoca della prima uscita, abbastanza bassi (517.375 dollari), in occasione della seconda uscita, che ha visto il film ottenere un grande successo anche al botteghino e la sua esportazione in Europa, e quindi anche in Italia, dopo la sua presentazione fuori concorso (come “film sorpresa”) alla 61a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Donnie Darko è un film che oscilla elegantemente tra la tipologia del film di genere, più connotato, più riconoscibile e fruibile, e quella del film autoriale, che elargisce, sì, sentieri e indizi per permettere di ripescare alla fine ,e solo alla fine, il bandolo della matassa, ma questi stessi elementi di decodifica li dissemina in percorsi snodati, articolati e complessi, perché sono la storia, e permettono di essere scardinati probabilmente solo a posteriori, quando il film fermenta dentro, laddove allora si capisce che quel che si ha davanti è un film importante.
In molti lo hanno definito un film straccia-generi e lo stesso Kelly dichiara la sua volontaria ambizione nel non fare un film di genere. Relegato spesso tra la black comedy e l’horror, in realtà nulla fa mai davvero paura in questa storia, cominciando dal coniglio metafisico Frank, pensato e realizzato, con un’interessante intuizione, per essere una suggestione visiva più distorsiva che orrorifica. E c’è poi il viaggio nel tempo, che è forse la distorsione della realtà per antonomasia, la più classica e una delle più utilizzate nel cinema, velata dietro l’apparente linearità cronologica del tempo del racconto.
In realtà Kelly ci propone un nuovo tipo di mostro, una forza nemica di statura sovrannaturale il cui peso non è nella sua natura di entità capace di suscitare paura e orrore, bensì nell’intensa sensazione di drammaticità ed amarezza che lascia nello spettatore, non appena questo sa rendersi conto che la guerra che questo strano supereroe dal nome buffo combatte non è altri che con se stesso, con una parte significativa del sé. E’ l’iper-individualismo che trionfa in questo film, quella costernante solitudine che circonda l’individuo fino alla morte, come Nonna Morte ricorda a Donnie in una frase che lo lascerà per nulla indifferente.
Non a caso la scelta di ambientare la storia nell’America degli anni ’80, anni in cui l’individualismo andava di moda e anni che Kelly dimostra di conoscere nella loro essenza adolescenziale, riuscendo a prelevarne gli elementi che più potevano scolpire la memoria di chi li ha vissuti e ad accompagnarli con brani musicali di quegli anni musicali invecchiati bene e non scivolati in una specie di dimenticatoio pop, senza mai tralasciare la possibilità semantica dei testi.
Perché la vera grandezza di questo film è di non aver lasciato nulla al caso, ma l’esser riuscito a rilegare l’infinità di chiavi di lettura a cui esso si sottopone in un universo di coerenza fatto di una distorsione tra tempo del racconto e tempo della storia in cui il primo annulla il secondo.
In un universo simile Donnie Darko non poteva non essere anche un film sulla schizofrenia, una schizofrenia però che non è semplice malattia mentale giustificata secondo parametri medici, ma schizofrenia che è realtà e si lega alla realtà in maniera così intima da non riuscire a farne distinzione e a capire quale sia la vera follia. L’incomprensibilità delle azioni di Donnie rivela la natura fortemente problematica di Donnie, un outsider nella sua stessa cittadina, nella sua stessa casa, un disadattato che sembra incapace di percepire l’evidente affetto che i suoi genitori, a loro modo, gli dispensano. Donnie è uno squilibrato: dorme per strada, imbratta le case altrui, va in terapia, insulta la madre costernata, il classico adolescente in conflitto col mondo che cambia intorno a lui, forse del tutto inconsapevole del fatto che è lui ad essere in uno stadio metamorfico com’è quello dell’adolescenza . L’“incapacità a venire a patti con le forze esterne del mondo che lui percepisce come ostili” di cui parla la sua dottoressa, è in realtà una manifestazione del suo non farne parte, sicché il suo scoprire di essere un già morto diviene per lui una consolazione. Mai durante tutto il film Donnie sorride così serenamente come nella fine del film, prima di morire. Si potrebbe allora mettere in dubbio allora se Donnie stia sognando di essere in un qualche modo come possibile alternativa alla sua condizione, o se stia sognando di essere sopravvissuto come possibile alternativa alla sua morte.
E la soluzione è che, come dice il professore di Donnie, non c’è determinismo sull’affermare se sia possibile o no viaggiare nel tempo. Vedere l’esito del proprio percorso significa avere l’opportunità di scegliere, e di scegliere in maniera alternativa. Questo è ciò che serviva sapere a Donnie: può vedere, e se può vedere può scegliere. E, per qualche strano scherzo del destino, lui ha il potere di vedere il tempo nel suo farsi, lui può leggerne i flussi, lui può vedere di più. Forse, quindi, può scegliere di più. Può scegliere di ribellarsi al pensiero immaturo dell’adolescente che corrisponde all’equazione predestinazione uguale mera pulsione di annullamento/distruzione, e sposarne un altro, quello responsabilizzante dell’adulto secondo cui maturità è sinonimo di anelito alla preservazione degli affetti, ergo di comprensione dell’importanza degli “altri” nella propria vita. Equazione che porta alla conclusione che è possibile dare un senso tanto alla propria vita quanto alla propria morte, e quindi evitare di morire in solitudine, se si è capaci di morire dotando questo atto di un significato diverso, di un significato per gli altri. Per chi si ama. La ritorsione del tempo del racconto su un solo momento di storia diviene allora la descrizione di un solo attimo, l’attimo della crescita di un adolescente che si sentiva escluso dalla realtà, l’attimo dell’innamoramento.
Perché indossi quello stupido costume da coniglio? Perché indossi quello stupido costume da uomo?
Donnie Darko è un film che solo il cinema americano poteva donarci, e per una volta quest’affermazione non vuole riferirsi alle sue grandi produzioni, ma alla capacità che certi suoi autori hanno di creare in una società che ha abbandonato il sacro e il meraviglioso, nuove mitologie sfruttando quelle che sono le sue nuove religioni, la merce, la comunicazione mediatica, la scienza e svelando dietro il velo della realtà gli infiniti specchi in cui essa può riflettersi e che costituiscono il fantastico.