“I miei film sono colabrodi, sono pieni di buchi. Non ho mai aspirato a fare opere definitive ma ho sempre sperato di invitare il pubblico alla riflessione.”
Ettore Scola
Con questa dichiarazione rilasciata durante un’intervista per l’anteprima del suo film “La Cena” nel ’98, il regista Ettore Scola non solo dimostra una precisa coscienza della sua opera e del suo riflesso nel pubblico e nella critica, ma eleva a principio cardine della sua poetica tutto ciò che dalla critica e dal pubblico gli era stato imputata come una delle maggiori mancanze del suo fare cinema.
Che Scola sia, fondamentalmente, un narratore, non è sicuramente argomento di discussione. Eppure, proprio per per questo motivo, pare assurdo ritrovare, tanto nei più narrativi dei suoi film quali Il viaggio di Capitan Fracassa, C’eravamo tanto amati quanto in quelli forse più descrittivi e statici come La cena o Che ora è, un ritmo lento e riflessivo che preferisce soffermarsi ampliamente su alcune scene e situazioni al costo di alterare al minimo possibile l’economia narrativa del film.
A ben vedere, è come se per Scola fare un film fosse un pò come riempire con un colore a cera un disegno con il solo scopo di poter grattare lentamente in alcuni punti fin quando non ne vega fuori il miracolo della forma.
E’ un pò un cinema del sacrificio quello di Scola, dove il primo sacrificio più evidente è forse quello di un tempo della storia a favore del tempo del racconto. E se Scola rilascia le sue dichiarazioni con la stessa onestà con cui fa i suoi film, tale sacrificio non è altro che il frutto cosciente del desiderio di fare introspezione senza tuttavia rinuniare al racconto, come a dire che non si può raccontare l’uomo, sia esso un padre di famiglia e o il personaggio di una favola, senza raccontare le azioni.
Del resto Scola, che secondo gli usi della buona vecchia scuola cinematografica, ha sempre collaborato alla stesura delle sue sceneggiature, avvalendosi anche dell’aiuto di maestranze illustri quale fu la coppia Age e Scarpelli, costruisce intrecci di azioni e di immagini che dall’inizio del film fino alla sua conclusione, non hanno mai smesso di raccontarci i personaggi, in una sorta di continua rivelazione di quella parte dell’essere che è più nascosta e repressa e che emerge solo alla conclusione, come esplosione, come grido.
Per cui se già nelle prime sequenze dei film di Scola si ha la sensazione tipica di aver già collocato i personaggi nel nostro immaginario, egli sblocca questa quiete certezza mostrandoci poco a poco quel che la visione rapida e mirata a cui il cinema contemporaneo ci ha abituati non potrebbe mai mostrarci.
Gli stessi colpi di scena cui Scola sembra tanto legato e a cui non sembra rinunciare neanche per film molto lenti com eil suo “Che ora è”, non sono altro che il naturale emergere del personaggio, il suo rivelarsi pian piano per quello che è e non per quello che mostra. Scola gioca con i personaggi e gioca con il pubblico, perchè è sui pregiudizi e sulla diffidenza di quest’ultime che il regista costruisce l’immagine e la personalità dei suoi personaggi, e la suspence come percorso che partendo dall’una porta a scoprire l’altra.
Così, per esempio, un padre premuroso e dedito al figlio e alla famiglia si rivela un uomo mosso dalla paura della solitudine e dal senso di colpa per aver tradito la famiglia (Che ora è). Quello di Che ora è un confronto interessante, non solo perchè è il confronto tra due grandi attori, Troisi e , ma perchè Scola sfrutta appieno le potenzialità introspettive dei due artisti per raggiungere un livello di indagine e di confronto molto più profondo, che è quello tra padre e figlio, tra due personalità opposte, tra due mondi radicalmente diversi e ormai divisi, tra due periodi diversi del nostro paese. Cosi dalla silenziosa ubbidienza di un figlio tacito e solitario, esplode l’ essenza di uomo adulto e forte che rifiuta le sue stesse origini, che ambisce a una vita da pescatore, da uomo libero, e che nell’ apparente silenzio con cui ha contrastato la vuota retorica del padre marchiandosi d’obbedienza, egli ha agito, costruendosi una vita propria lontano, nel senso più profondo del termine, da quella che era la sua casa.
Magistrale è anche l’espediente usato dal regista per rivelarci come l’apparente servo ingenuo del capitan Fracassa (Ciccio Ingrassia) sia stato cosi furbo (o folle) da comprare il tutorato di Arlecchino per il suo padrone con del denaro falso. Scola infatti rivela l’espediente durante uno spettacolo di burattini incentrato sugli eventi della stessa compagnia, una ri-rappresentazione della storia che indaga su se stessa e sui propri personaggi tramite quell’espediente di introspezione potente che la critica ama definire come “metateatro”.
C’è un altro particolare che interessa i finali dei film di Scola, e cioè quella concezione fatalistica per cui le sue storie fuggono sempre dal lieto fine, o almeno, dal finale che l’immaginario collettivo rende inutibile.
Anche questa volta Scola gioca con la narrazione e con il pubblico, ma anche questa volta io non credo ciò sia riconducibile a una mera passione per il colpo di scena, per il finale inaspettato. Io credo che i colabrodi di Scola mirino a graffiare solo dei frammenti su quei monocromi di cera cui si faceva rifermimento prima, mettere a fuoco su pezzi di realtà fino renderne le imperfezioni, quelle imperfezioni di cui spesso anche il cinema più realista s’è dimenticato o ha avuto vergogna di mostrare.
Il principe di Capitan Fracassa ritroverà la sua felicità, ma non con la progettata riaffermazione della sua nobiltà, ma come capocomico della sua compagnia, e non con accanto la donna per cui aveva sofferto, ma col suo primo amore. E Antonio alias Nino Manfredi rincontrerà si la tanto amata Luciana, ma soltanto quando lei avrà perso la sua carriera di attrice e sarà la povera madre di un bambino, pronta a diventare anche la povera moglie di un operaio.
Credo che quello di deviare i propri finali dalle aspettative della storia e del pubblico rappresenti per Scola un espediente per raggiungere quel suo intento di “invitare il pubblico alla riflessione”, costringendo le coscienze “deluse” a riconsiderare la propria visione della realtà, a chiedersi il perché! Lungi dal farne un’esaltazione illeggittima, di certo queste dinamiche sono ravvisabili anche a molti altri autori della storia del cinema, certo, ma merita sicuramente considerazione (e apprezzamento) la delicatezza con cui durante nei suoi finali a sorpresca Scola cerchi di non cadere mai, nemmeno per una favola come “Capitan Fracassa”, nell’irrealtà, nel deus ex machina, e nel moralismo. Ma soprattutto, se può esserci un’accusa da cui Scola sembra riguardarsi con particolare dedizione, è senza dubbio quella di essere un fatalista.
Cosi, non c’è fatalismo nei film di Scola, è questo è probabilmente all’origine dell’imperfezione della sua realtà. Perchè è l’uomo con le sue azioni, le sue scelte, e non con la sua condizione, a decidere il suo futuro. Ma allo stesso tempo, è il successo di quel percorso di introspespezione, la capacità del personaggio, e del pubblico che lo segue, di comprendere la sua reale essenza prima del finale del film, che determina la qualità del suo finale, che non sempre è il più felice anche se esteticamente il più bello. In “C’eravamo tanto amati”, ad esempio, l’ormai ricco e potente Gianni si vede commiserato dai suoi economicamente falliti amici per una ricchezza della quale si vergogna perché è servita ad ottenere quel che realmente voleva e che avrebbe potuto raggiungere con molto meno:
”Luciana, il matrimonio, una casa e una lambretta, non necessariamente in quell’ordine”.
Nonostante il suo dichiarato orientamento antiborghese, l’intento di Scola non è da confondere con una mera esaltazione alla povertà. Sebbene infatti il regista non sembri intenzionato a farlo, tutta l’ ideologia di Scola, il suo messaggio, la sua morale, scivolano nelle azioni dei suoi personaggi prediletti, quei personaggi più complessi e più disponibili a mettersi in discussione e a vivere la propria vita secondo quella Teoretica del Boh su cui è incentrato il dibattito tra i 2 amici Gianni e Nicola sulla dissolvenza finale di “C’eravamo tanto amati”.
“Vivere per quel che si vuole ma non per ciò che si vorrebbe”
Scola ci insegna che c’è un divario enorme tra le due condizioni, tra ciò che si vuole perchè se ne ha bisogno, e ciò che si vuole perchè ne ha un idea. La Teoretica del Boh è la teoretica del tenere i piedi per terra, del vivere il presente per quel che è, del fuggire l’idealismo, o per lo meno, di guardarsi dal farsene coinvolgere. Perciò sono sempre i più umili e semplici ad averla vinta nei suoi film, non perchè sono poveri e antiborghesi, ma perchè riescono ad osservare e rispondere alla realtà per quello che è realmente.
Esemplare, a questo proposito, è l’esempio di Nicola Palumbo che nel quiz di Mike Bongiorno in C’eravamo tanto amati, perde l’intero premio per la sua incapacità di rispondere all’ultima domanda,una domanda a cui paradossalmente aveva gà mostrato in altra sede di conoscere la risposta. ”Perché il bambino di Ladri di biciclette piange?”.
Il peccato più grande per cuiPalumbo è punito dal suo autore non è dunque l’ingordigia per aver voluto raddoppiare la sua vincita, ma l’ideologismo, quell’ideologismo per cui pensa di dover ostentare le sue maniacali conoscenze cinematografiche anzichè rispondere raccontando semplicemente la palese reazione di un figlio che vede rubare il padre. Quella di Palumbo chiamato a scegliere a un Quiz tra la magia del cinema il razionalismo della sua strutturazione, tra la semplicità della vita e la complessità l’ideologia, è una metafora moderna di senso profondo che Scola sembra rivolgere anche al suo pubblico e ai suoi critici.
Perchè di certo è inequivocabile che i film di Scola portino con sè anche grandi imperfezioni tecniche e strutturali, ma quello di Scola è sempre, e prima di tutto, un cinema della narrazione, una narrazione della realtà nella sua più intima e innavertibile essenza.