Il demone creativo (pt.1) – Possessione e inconscio

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Il demone creativo (pt.1) – Possessione e inconscio

Considerazioni sul saggio “lo spettacolo come il gioco e il sogno della società” di Gianpiero Calasso 

Parlare di creazione e ispirazione artistica in termini di possessione demoniaca può apparire, agli albori del terzo millennio, in una civiltà in cui empirismo e pragmatismo sono il credo più diffuso, un operazione del tutto anacronistica e fine a una rappresentazione romantica e puramente speculativa di questi processi.

Eppure, il tentativo di riproporre oggi quest’idea mutuata dalle più antiche culture,  motivandola sul piano scientifico e avvalendosi delle nuove discipline quali la psicologia, la psicoanalisi, e gli studi antropologico, potrebbe certo riportare l’arte, nella più completa realizzazione del suo significato, sul suo antico piano di sacralità, di rito, di altare non contaminato dal mondo, e potrebbe farlo proprio trovando un punto d’appoggio proprio nell’ideologia empirica da cui è stata spodestata.

Già la storiografia pare proporci un buon numero di modelli culturali dove il processo di creazione artistica, l’ispirazione, intesa come trance psicofisiologica, viene interpretata come una forma di possessione divina.

Primo fra tutti il concetto di possessione demoniaca propostoci dalla civiltà greca, di cui abbiamo menzione anche negli scritti di Platone e Aristotele e che vedeva l’artista posseduto o guidato da un daimon. Il daimon era un demone guida, una specie di accompagnatore spirituale che si impossessava del corpo dell’artista ogni qualvolta egli stesse creando. Simili caratteristiche possono essere riscontrate nel genius latino, ma anche nel Ka della civiltà egiziana, e nell’angelo custode di quella ebraico/cristiana.

Se poi ci rivolgiamo con più precisa attenzione all’arte drammatica, vediamo come il numero di riferimenti alla presenza di un daimon specificatamente drammatico, aumenta notevolmente allargandosi anche sul piano degli studi antropologici. Ancora oggi, in molte civiltà definite erroneamente “primitive”, in cui il senso del sacro e del rito hanno mantenuto il loro ruolo totalizzante sull’organizzazione di queste piccole società, il processo di creazione e rappresentazione drammatica è inteso come un rito di manifestazione divina, come se in quel momento un demone si servisse del corpo dell’attore, del danzatore o di un qualsiasi soggetto drammatico per manifestarsi. Si guardi per esempio, ai riti teatrali della popolazione di Bali, o a quelli di alcune civiltà dell’Africa Centrale, dove a volte anche l’esecuzione musicale, è concepita come momento di possessione demoniaca, possessione che può riguardare non solo gli esecutori, ma anche i loro strumenti.

Esiste una particolare tribù Maori (di cui spiacevolmente non riesco a ricordare il nome), ad esempio, la cui musica è fatta solamente di tamburi. Il suono di ciascun tamburo non è determinato da dei loro particolari accorgimenti tecnici, ma dal demone che viene imprigionato in quel tamburo attraverso un particolare rito.

Ma non bisogna andare così lontani nel tempo e nello spazio per trovare esempi di interpretazione della rappresentazione drammatica come possessione di un demone. Basti pensare alla tradizione salentina della taranta, che pur assumendo un ruolo di rito di guarigione, necessitava pur sempre dell’occhio di un pubblico, assumendo i caratteri di un fenomeno drammatico a pieno titolo in cui il soggetto danzante era posseduto da un demone del dolore (la tarantola) e la cui danza era finalizzata alla liberazione da questa possessione. Del resto il concetto di possessione demoniaca o, comunque, spirituale, al contrario di quel che un primo sguardo superficiale ci può far sembrare, non è poi così lontano dalla nostra cultura nemmeno in tempi presenti. Al di là del radicamento di certe tradizioni culturali ormai superate in piccoli nuclei sociali, non è difficile riscontrare in certe discipline religiose e di stessa matrice cristiana il concetto di possessione, o addirittura di creazione artistica come espressione di una possessione.

Basti guardare per esempio, a concetti religiosi come Carisma o Spirito Santo che sono alla base dei fondamenti proposti dalla Chiesa Evangelica Pentecostale, o di alcune correnti cristiane cattoliche. In maniera più o meno differente, c’è alla base di queste discipline religiose, l’idea di “Carisma” come “Dono”, predisposizione verso delle particolari funzioni del vivere sociale. Il Carisma viene dato da Dio all’anima di ogni uomo prima che egli nasca, in base alle sue necessità ed al cammino di vita che dovrà compiere, ed è scoprendolo, coltivandolo, e mettendolo al servizio della società e dei fratelli che l’uomo glorifica Dio e lo serve. Ma il Carisma può essere scoperto e coltivato solo con la preghiera e l’invocazione dello Spirito Santo. Il concetto di Spirito Santo che queste discipline si propongono è mutuato dal racconto evangelico del giorno di Pentecoste, in cui i discepoli rinchiusi nella casa di Maria, timorosi di uscire fuori tra la gente a causa della loro debolezza e ignoranza,  dopo la morte di Gesù, furono investiti da un forte vento e delle fiammelle di fuoco si posarono sulle loro teste, e di improvviso non ebbero più paura, uscirono fuori dalla casa e cominciarono a predicare e a parlare lingue diverse che non avevano mai conosciuto prima. Non è raro ascoltare in questi incontri di preghiera, dopo il momento di invocazione dello spirito, fedeli cantare in lingue diverse a loro incomprensibili ma musicalmente all’unisono, alcuni profetizzare in aramaico parole che dovrebbero poi rivelarsi comprensibili a qualche altro presente che le ritraduce, alcuni farsi direttamente voce di Dio che parla in quel momento profetizzando guarigioni in quel momento, o altri improvvisare un canto cui poi tutta l’assemblea va dietro, in una sorta di processo creativo work in progress. Lo Spirito Santo diventa quindi una forza, che opportunamente invocata, permette all’individuo di risvegliare i suoi Carismi mettendo in atto capacità altrimenti impossibili, ed è interessante notare come proprio questo tipo di discipline religiose, diano nei loro riti di preghiera una rilevante, quasi maniacale importanza all’esecuzione musicale e canora di canti, che lungi dall’esser simili a quanto di più schematico e musicalmente ortodosso la Chiesa abbia proposto, sembrano accostarsi a volte ai ritmi più vari e moderni ed abbandonarsi a strepitose jam session. Non meno rilevante, la tendenza di accompagnare questi canti con successioni di gesti specifici o danze volti a drammatizzarne il senso.

Per quanto l’accostamento a un tipo di possessione più speficatamente artistica, come quella del daimon drammatico proposta da G. P. Calasso in Lo spettacolo come il gioco e il sogno della societàpossa sembrare a tratti forzata, è evidente come esistano molteplici corrispondenze tra la descrizione del concetto di Carisma appena proposta, e la descrizione di daimon che egli a sua volta mutua da James Hillman, citando il suo saggio Il codice dell’anima

In questa sua visione completa dei processi dell’anima e del ruolo del daimon nell’individuo, Hillman ne fa quasi una vocazione biologico-culturale unendo misticismo e scienza, creando una base empiricamente razionale a un principio meramente metafisico. Prima della nascita l’anima di ognuno sceglie un’immagine o un disegno che vivremo sulla terra e riceve un compagno che ci guida, un daimon, unico e tipico nostro. Ci siamo scelti corpo, genitori, luogo e situazione di vita adatti all’anima e alle sue necessità, ma se la scelta ci pare incomprensibile è perché dimentichiamo.

Quel che per il carisma era una scelta di Dio, per Hillman diventa una scelta dell’uomo, o meglio dell’anima. Ma non è qui il tocco razionale di Hillman che non riesce a liberarsi del concetto di anima, di quel “da dove veniamo” di cui nessuno scienziato è mai riuscito a liberarsi. La sua chiave di volta sta in realtà in quel “dimentichiamo”, quel processo puramente mentale che implica in un fenomeno metafisico un dato potenzialmente intuibile a livello intellettivo. Hillman aggiunge:

Per cogliere i segni del daimon all’opera dobbiamo porre attenzioneall’infanzia.

E’ nell’inconscio che Hillman nasconde la sua idea di carisma, il suo daimon, ed è l’istinto ludico del bambino lo Spirito Santo che permette di esprimerlo nella sua totale purezza. Del resto è lo stesso Hillman a iniziare la sua descrizione ammettendo di parlare di un tipo di vocazione che è sentitissima in molte culture, e un approccio di tipo psicoanalitico, a una visione sinora riproposta in maniera esclusivamente filosofica, nonostante i notevoli progressi compiuti da questa nuova scienza dai tempi del suo teorizzatore Freud, a oggi, non è da considerarsi del tutto meno dogmatico di quelli sopra proposti. Tuttavia la definizione di inconscio che Calasso mutua dagli studi di Eugene Marais sull’inconscio animale in The Soul of the Ape, sembra darci un’idea più chiara e più squisitamente empirica di quel che Hillman si limita a definire esclusivamente come dimenticanza.

Si parla di inconscio come serbatoio subliminale delle memorie filetiche e ontogenetiche represse durante l’evoluzione della specie e dell’individuo, in seguito al relativo processo di progressiva sostituzione dell’apprendimento alle pulsioni istintive innate nella determinazione dei comportamenti.

Quella che qui ci si propone è una divisione della memoria in ontogenetica, che si occupa della trasduzione dell’esperienza in dati, e filetica che si occupa della conservazione dell’istinto. Questa suddivisione permette a Marais di spiegare il processo di dimenticanza degli istinti primordiali, del nostro daimon, attraverso un meccanismo di repressione della memoria filetica a vantaggio di quella ontogenetica. Come a dire che più apprendiamo, più dimentichiamo chi siamo.