Considerazioni sul saggio “lo spettacolo come il gioco e il sogno della società” di Gianpiero Calasso
Se aver preferito la ragione e l’apprendimento piuttosto che l’istinto ha sicuramente favorito l’evoluzione della nostra specie e il suo dominio su quella degli altri esseri viventi, è altrettanto certo che , come dice Calaso, tale scelta
ha sviluppato quel dualismo e conflitto con la propria natura ravvisabile in carenza di eudaimonia.
Questa eudaimonia di cui si parla in Lo spettacolo come il gioco e il sogno della società, pare rappresentare lo stato primordiale dell’uomo, uno stato di equilibrio con se stesso e il mondo. Del resto nel libro si sottolinea come il termine di eudaimonia, in greco usato per indicare felicità (dal termine greco εὐδαιμονία (eudaimonìa), che letteralmente vuol dire “essere con un buon [eu] demone [daimon]), derivi direttamente proprio da quello di daimon e ne implichi la sua possessione. E non a caso il concetto viene tirato in ballo da Calasso nel suo tentativo di ricostruire il processo di ispirazione artistica, inteso come processo in cui la coscienza si predispone in una sorta di trance, a ricevere l’energia creativa, procedendo a una sorta di sublimazione del caos del mondo nell’ordine della creazione.
L’eterno conflitto dualistico tra caos e ordine, i cui movimenti sono ampliamente sintetizzati nella legge matematica che prevede un elemento di caos per ogni sistema di ordine e viceversa, in modo da garantire quel continuo processo di trasformazione nascosto dietro ogni processo di creazione e distruzione dell’universo, sembra essere l’ostacolo più grande al raggiungimento dell’eudaimonia.
In tutto questo sistema, la creazione artistica viene ad assumere un ruolo di valvola di sfogo, di espressione di una carenza, quel punto d’ordine in un sistema caotico, e quel punto di caos in un sistema ordinato, come se non ci fosse scelta nel dualismo universale, ma soluzione di continuità, trasformazione, raggiungimento dell’unificazione totale, quell’unificazione tanto profetizzata da certe discipline orientali.
Se Hillman ci dice che nel gioco dei bambini possiamo vedere il daimon in azione, Marais ci spiega perchè, configurando con le sue teorie la mente infantile come l’esempio di una memoria filetica ancora vergine e intoccata da quella ontogenetica. Il ludo infantile si configura come un istintivo meccanismo di presa di coscienza da parte dell’ego infantile del suo daimon e il suo strumento di difesa nel conflitto con l’alter ego, la società, il mondo della cultura che chiede di assorbirlo.
Non è un caso che la drammatizzazione diventi dunque il mezzo artistico attraverso cui il daimon si rivela nella sua totalità. Definendo fenomeno drammatico ogni fenomeno nel quale un soggetto (attore) assume coscientemente e temporaneamente l’identità di un altro soggetto (personaggio) per rappresentare un azione (dramma) a scopo di intrattenimento ludico destinato dalla fruizione di un altro soggetto (spettatore), è chiaro come questo permetta al daimon di esprimersi facilmente nel soggetto creante, poiché presuppone già nella sua forma un processo di personificazione.
Anche il ludo infantile infatti, si configura dal punto di vista paradrammatico, con la creazione di un alter ego fantastico, basato si sulla mimesi della realtà oggettiva, ma elusivamente sotto controllo dell’ego in quanta sua creazione. Così anche in altri fenomeni paradrammatici, quali il sogno, o alcune patologie psicofisiche come la schizofrenia, c’è sempre una necessità del soggetto drammatico di garantire alla sua creazione una totale indipendenza dalla realtà oggettiva. E’ plausibile dunque, che questi fenomeni (in particolari i sogni, ma anche le patologie psicofisiche non sono da escludere) possano essere interpretati come sbocchi di sfogo per lo smaltimento di pulsioni represse, memorie filetiche e ontogenetiche dimenticate ma che possono riemergere allo scopo di mantenere un equilibrio psichico fra coscio e inconscio.
Tuttavia, è anche vero che il sogno e le suddette patologie, così come il ludo infantile, non sono processi di creazione artistica, ma si configurano come fenomeni simili ma non corrispondenti alla drammatizzazione artistica, in quanto manca in essi la coscienza dell’agire puramente ludico, mentre se ciò avviene nel gioco del bambino, questi non sembra nutrire la necessità di uno spettatore per le sue rappresentazioni.
Il daimon drammatico che agisce nel binomio attore spettatore appare allora un prolungamento della spontanea creatività inconscia del bambino nel mondo cosciente dell’adulto, che, aggiungerei, opportunamente assorbito nel corso degli anni dal mondo che lo circonda, in quel processo di scambi proporzionali di memorie filetiche e ontogenetiche, sembra rinunciare al controllo autosufficiente della sua creazione e ricercare l’elemento di relazione sociale per il suo compiersi.
Questo non vieta che la drammatizzazione, come il gioco e il sogno della società, non abbia la stessa funzione di sfogo e la stessa natura intuitiva semplicemente opponendo alla loro funzione sociale, la sua funzione individuale, ma deve anche far prendere coscienza della posizione ambigua su cui lo spettacolo poggia i suoi cardini, a metà tra necessità di sfogo delle pulsioni represse dal modello sociale che si è costruito e necessità di condividere il suo sfogo proprio con quest’ultimo.
Perché sia il daimon drammatico ad esprimersi in una drammatizzazione occorre infatti che il rapporto attore spettatore stia cercando di svilupparsi sullo stesso piano di esperienza, quello del gioco. Occorre perciò che il pubblico sia pronto ad uscire, come l’attore, dal modello sociale che si è autocostruito per reprimersi, che si costruisca uno spazio convenzionale vergine in cui ricordare chi si era, o lasciare che l’inconscio ricordi da sé.
Due considerazioni appaiono sintomatiche a tal proposito:
- il fatto che nonostante il daimon drammatico si sia manifestato nelle forme più disparate nel corso della storia della drammatizzazione, i suoi contenuti più sentiti e profondi siano sempre venuti dal mito, che può considerarsi la vera memoria inconscia della società e dei suoi conflitti più antichi. Come a dire che da anni non facciamo altro che ascoltare e appassionarci alle stesse storie, il che dimostra che nel profondo siamo sempre quel che siamo sempre stati ( anche al di là dello stabilire se si tratti di reincarnazione di anime, di geni o di strutture sociali);
- il fatto che man mano che man mano che la nostra società vada evolvendosi e progredendo sul piano banalmente tecnico, ma intellettivo, abbiamo avuto bisogno sempre più bisogno di fare sempre più buio[1] per poterci costruire uno spazio vergine in cui poter agire drammaticamente. Come a dire che più impariamo, meno riusciamo a vivere.
Questa considerazione non è da ritenersi un richiamo all’ignoranza, ma all’equilibrio, che da tutto questo discorso pare rivelarsi il vero interesse del daimon. E la semplicità sembra essere l’elemento di contrappeso a cui il daimon drammatico di oggi cerca di costringerci “fino ad ammalarci”: la semplicità di vedere le cose per come vanno e non per come funzionano, la semplicità di accostarsi alle cose con l’ingenuità del sacro, la semplicità di non vedere conflitti, ma elementi diversi tra loro trasformarsi l’uno nell’altro senza necessità di classificazione, la semplicità di abbandonarsi al gioco senza la preoccupazione di dover risistemare i giocattoli.
Ma si sa, in ogni sistema caotico deve poi necessariamente esserci un elemento di ordine.
[1] Le ricerche più moderne parlano di fruizione dello spettacolo drammatico direttamente tramite stimolazione neuronale, saltando pure i recettori sensoriali quali vista e udito. Vedi le ricerche di Weibel e il Zentrum fur Kunst und Medientechnologie di Karlsruhe e del Massachussets Institute of Technology, USA.