Se discutere di valori etico-sociali come giustizia e democrazia oggi, in cui la valenza semiotica di questi due concetti è celata dalla tendenza di darsi per sottintesa o di relegarsi nella cantina delle vecchie utopie, può essere compito arduo e incline a non poche contraddizioni con quella che è la realtà attuale, muovere tali riflessioni all’interno dell’opera di uno dei più grandi tragediografi e pensatori della cultura ellenica quale Eschilo rappresenta, può forse connotare questo discorso della parvenza di un metodo che mira a trovare soluzione all’origine dell’insediamento di questi valori nella nostra società. Che quello che oggi chiamiamo Occidente, nel suo complesso di realtà culturale, etica, sociale e politica, debba riconoscere all’antica civiltà Ellenica la sua paternità, in fondo è ormai risaputo. Ma se lungo il cammino evolutivo che questo modello sociale ha affrontato fino ad oggi, l’obiettivo è stato quello di raffinare e avvicinarsi sempre di più proprio a quei concetti di giustizia e democrazia, è proprio nella Grecia di Eschilo che si muovono i passi più importanti.
Vissuto tra il 525 e il 455 a.C., il primo dei grandi tragediografi greci vive infatti in un periodo di grandi cambiamenti che non possono non avere influenze sulla sua natura di uomo e di artista. Nato sotto la tirannide di Ipparco, istituita da Pisistrato come risposta al governo populista di Solone, Eschilo assiste al suo rovesciamento e all’instaurazione della democrazia ad opera di Clistene nel 510 a.C. , e alla più completa attuazione di uno Stato democratico ad ordine di Pericle ed Efialte. Inoltre egli partecipa alla guerra contro i Persiani e alla conseguente vittoria, vive la realtà di un Atene divenuta ormai centro della Lega delio-attica in seguito alla Pace dei trent’anni, e conosce anche quella che è la realtà delle colonie greche attraverso i suoi lunghi soggiorni in Sicilia, tra Siracusa e Gela, dove tra l’altro morì. Per quanto queste informazioni sull’Eschilo uomo possano sembrare superflue ai fini del discorso, in realtà esse possono rivelarsi importanti per una comprensione delle sue opere e del suo pensiero.
Se è vero infatti, che un opera è pur sempre figlia del suo tempo e di esso si fa viva testimonianza, mai quest’affermazione fu più certa forse che per il teatro greco, che lungi dall’essere esclusivamente un mezzo ludico ascrivibile al campo artistico-letterario e quasi destinato a un pubblico di intenditori e appassionati, interessava e coinvolgeva, per dovere più che per diletto, la vita stessa dell’intera popolazione nei suoi aspetti religiosi, etici, sociali divenendo un fatto politico, che riguardava cioè l’intera cittadinanza. Non a caso era lo Stato che si assumeva l’impegno e i costi della messa in scena di un’opera, lo Stato che promuoveva concorsi fra i vari autori, lo Stato che dava persino un indennizzo ai cittadini per la giornata lavorativa persa, uno Stato veramente “sociale” nel senso moderno della parola. E questo perché l’opera teatrale greca era concepita essenzialmente in funzione moralistica e educativa ma si configurava allo stesso tempo come un evento sacro e religioso: lo stesso Aristotele ne parla come di una catarsi , una purificazione dalle passioni e dai mali.
La grandezza di Eschilo tragediografo fu proprio nel riuscire a conciliare questa componente sacrale del teatro con la componente pedagogica senza nulla togliere alla narrazione, raffinando una forma dal linguaggio unico e inconfondibile e ponendo le fondamenta strutturali per quel che da lui in poi sarebbe stato il teatro. Tutte le opere che ci sono pervenute, 7 delle 90 che si pensa egli abbia scritto, sono marchiate da questo inconfondibile stile linguistico che ben sposa la sua continua ricerca della giustizia e il tentativo di risolvere il contrasto tra la volontà divina e la coscienza umana.
Del resto la cultura ellenica del tempo stava passando da una visione arcaica dell’uomo e dell’universo a una concezione più razionale, proprio in merito a quella riorganizzazione della vita sociale che si stava attuando secondo forme di partecipazione collettiva al potere basate su regole imparziali e democratiche che non potevano non influire sulla coscienza del singolo individuo. Ogni uomo era chiamato a scegliere, e quindi a riflettere sulle proprie necessità e sulle conseguenze delle proprie azioni e abbandonando l’idea di un destino dominato da forze cieche e oscure, cominciava a poter credere di costruire il proprio destino e la propria idea di giustizia.
Questo la dice lunga sugli stretti legami che intercorrono tra i concetti di giustizia e democrazia e giustifica come se ne possa parlare indistintamente in merito alla loro influenza in due delle più belle tragedie di Eschilo, quali Le Supplici e Le Eumenidi, che per ironia della sorte c’è chi pensa che furono la sua prima e la sua ultima tragedia.
In queste opere i protagonisti non sono più semplici mortali in balia di forze estranee, ma uomini coscienti, certo sottoposti alle dure leggi della necessità, ma anche responsabili delle proprie scelte, vittime e colpevoli insieme, a seconda di quale sia la reale giustizia. In realtà c’è forse un’esplicita intenzione dell’autore di affrontare questi temi, intenzione che va individuata non solo alla luce di quanto egli scrive, ma nella stessa scelta degli eventi che decide di narrare.
Nelle Supplici si racconta delle figlie di Danao, che rifiutandosi di andare in sposa ai figli del re d’Egitto, loro cugini, fuggono sulle spiagge di Argo per chiedere la protezione del re Pelasgo. Dopo qualche esitazione, e dopo aver sentito il parere dell’assemblea cittadina, il re decide di accoglierle nel suo regno assicurando loro incolumità e libertà, giusto in tempo per ricacciare a casa gli Egizi appena sbarcati.
Le Danaidi vengono condotte all’interno delle mura della città cantando inni di lode agli dei. Stesso lieto fine anche nelle Eumenidi, terzo e ultimo capitolo dell’Orestea, l’unica delle trilogie di Eschilo giuntaci nella sua interezza, in cui si narra delle note vicende di vendetta familiare che colpirono la casa di Agamennone e che troveranno appunto fine in questa tragedia con la redenzione di Oreste.
Nelle Eumenidi infatti Oreste giunge a Delfi con le mani ancora macchiate del sangue materno, per chiedere al dio Apollo, che lo appoggiò nella vendetta del padre, di liberarlo dalla persecuzione delle Erinni, chiamate a perseguitare col senso di colpa coloro che avessero compiuto delitti sui consanguinei. Apollo consiglia ad Oreste di recarsi dalla dea Atena che sottoponendolo al giudizio dell’Aeropago, viene assolto in virtù di un principio universale sancito dalla dea stessa, secondo il quale un accusato viene assolto quando esistono tanti motivi per condannarlo quanti ve ne sono per assolverlo. Così alle Erinni, che si vedono licenziate dal loro antico dovere, Atena offre la custodia della giustizia di Atene e gli onori del suo popolo verso cui esse dichiareranno benevolenza, e per questo saranno da allora chiamate Eumenidi.
In entrambe le tragedie i protagonisti sono dei ribelli: le Supplici si ribellano al loro matrimonio con i cugini come Oreste si ribella alla sua condizione di peccatore che deve essere punito. Ed entrambi violano la legge, Oreste quella che impone il rispetto dei legami di sangue e le Supplici quella che riguarda la loro stessa condizione di donne. Eppure entrambi colpevoli di ribellione chiedono giustizia, una giustizia che altri non è che rispetto della loro decisione e abolizione della punizione che spetterebbe loro come conseguenza. In molti studi critici si è notato come la parola “giustizia” (dike- dika) ricorre innumerevoli volte in queste tragedie. Lungi dall’essere questa una pura osservazione statistica, essa è in realtà segno evidente di una continuna invocazione, di un bisogno di essa da parte di tutti i personaggi di queste storie, ed implicitamente, di un bisogno di riflettere su di essa da parte dell’autore.
La giustizia si sviluppa infatti, nelle Supplici come nelle Eumenidi, su più livelli: da un lato c’è la giustizia universale e oggettiva che vuole i protagonisti di queste storie colpevoli per il semplice fatto di aver infranto la legge, qualunque siano le ragioni che li hanno condotti a farlo; dall’altro c’è la giustizia che loro invocano, come rispetto delle loro ragioni e come prova della fallibilità di una giustizia fatta di leggi che siano sempre ed universalmente giuste; al centro c’è la giustizia di chi deve giudicare e trovare una soluzione dialettica che riesca ad accomunare la tradizione con le ragioni dell’individuo, perché la legge sia veramente giusta.
Se in tutti e tre i punti di vista c’è la necessità di invocare l’appoggio della divinità, come a dire che non c’è giustizia che gli dei non condividano, è nel giudizio che la Divinità esprime la sua superiorità morale e intellettuale. Ma questa, e qui sta la grandezza di queste due opere, si esprime sempre attraverso il popolo, o meglio, attraverso il giudizio del popolo espresso secondo democrazia. Si legge nelle Supplici:
“Ed il popolo ascoltava: poi senza araldo sollevò la mano e decretò che così fosse. Il popolo udiva a parlamento persuasive parole. Ma fu Zeus che volle il fine.”
E’ questo il racconto che Pelasgo fa alle Danaidi nell’annunziare la disponibilità del suo popolo ad offrire loro riparo tra le mura di Argo. Di fatti, Pelasgo, che di Argo è a quel momento il re, non osa prendere impegno di alcun tipo con le fanciulle senza prima sentire il parere delle sue popolo, certo che nel loro volere si riflette il volere di Zeus. Da qui si evince dunque come, al tempo in cui Eschilo scrive, lo stato democratico doveva aver ormai raggiunto una sua piena attuazione tanto che il gesto di Pelasgo doveva rientrare nella norma dei costumi politici del tempo.
La posizione del tragediografo in merito è ben nota facilmente deducibile da questa come dalle altre sue opere. Eschilo è pienamente a favore della democrazia, egli appoggia l’operato di Pericle, specie la sua opposizione contro i cimoniani ( lo si deduce anche attraverso l’esaltazione di Temistocle nei Persiani) e vede in lui il continuatore di quel che Solone aveva iniziato un secolo prima. Anzi è probabile che egli apprezzasse le linee direttive di Solone molto più di quelle dello stesso Pericle, perchè più moderate rispetto a quello che la nuova democrazia stava proponendo. Se da un lato Eschilo è convinto della necessità di dare al popolo la facoltà di decidere su se stesso, dall’altro egli è cosciente di quanto il confine tra la democrazia e l’anarchia possa essere sottile e di quanto l’esaltazione dell’individuo possa portare all’abbandono della divinità. Di fatto se si colloca Le Supplici all’interno della trilogia di cui doveva far parte e di cui costituiva il primo episodio, è possibile osservare come le figlie di Danao ne escano alla fine per nulla salvificate, vuoi per la loro natura di donne che il conservatorismo di Eschilo relegava al puro servilismo, vuoi perché nonostante la loro incrollabile fede e le loro continue preghiere le fanciulle infatti sono comunque colpevoli agli occhi degli dei. Nessun dio infatti ha dichiarato di sostenere la loro causa, la loro giustizia, né quella degli abitanti di Argo, sebbene essi abbiano scelto democraticamente. Ragion per cui sarà un errore di cui non solo le Danaidi, ma anche Pelasgo e il suo popolo pagheranno le conseguenze. Se dunque così emerge nelle Supplici, come Eschilo ponga una profonda religiosità al di sopra di ogni ideale politico, è nell’Eumenidi che viene fuori il suo vero lato conservatore.
In questa tragedia infatti non è più nella decisione del popolo che si manifesta la giustizia suprema del Dio, ma in quella dell’Aeropago, chiamato dalla stessa dea Atena a giudicare il caso di Oreste. L’Aeropago era il tribunale supremo che il mito vuole fondato da Atena sulla cima del monte Ares, ma che storicamente si pensa fu istituito proprio da Solone con la funzione di custodire le leggi e deliberare le pene per i reati più gravi. All’epoca era composto dagli arconti usciti di carica, sempre più vari per composizione sociale quando si allargò il numero dei cittadini eleggibili, ma per lo più rimase sempre in mano all’aristocrazia Ateniese. Quando perciò Eschilo ne fa un tribunale di giudici giurati scelti da Atena tra la popolazione ateniese per giudicare il delitto di sangue compiuto da Oreste, se da un lato sembra accoglierne la sua essenza di istituzione democratica, dall’altro sembra affermare la necessità di mantenere una continuità con la tradizione, che l’Aeropago, nell’antichità della sua istituzione, rappresenta. C’è un contrasto tra il nuovo stato democratico e lo stato tradizionale che si trasfigura in maniera più concreta nel contrasto che Eschilo ci presenta tra vecchie e giovani divinità, tra le Erinni, sostenitrici dell’insostituibilità della tradizione e di una giustizia universale incondizionata, e Apollo, sostenitore della superiorità del singolo rispetto alla stirpe e alla universalità di certe leggi. Ancora una volta a far fronte a questo dualismo c’è una terza giustizia, che altri non è che il risultato dialettico delle due e che viene amministrata da un istituzione democratica, quale l’Aeropago in questo caso vuole rappresentare, e da una divinità, Atena.
E’ importante notare come l’affermarsi della superiorità del singolo (qui rappresentata da Apollo) avvenuto ad opera della democrazia, porti la giustizia (Atena) ad introdurre il concetto di valutazione della colpa (il tribunale) sostituendolo a quello della condanna a priori (le Erinni). Si capisce allora come il concetto di democrazia non racchiuda più esclusivamente una particolare linea di governo, ma tutto il complesso di forme di organizzazione sociale e morale che derivano da una nuova maniera di concepire l’individuo all’interno della collettività e che vengono a costituire il concetto di giustizia.
Ed è proprio perché Eschilo ne è cosciente che preferisce forse mantenersi un moderato. Certo, dietro grandi motivazioni ideologiche ci sono quasi sempre in realtà delle finalità pratiche, ed ai tempi di Eschilo, così come forse fino a qualche secolo fa, per un artista era difficile essere del tutto anti-aristocratico. Del resto gli artisti stessi appartenevano più alle corti che al popolo e gli aristocratici furono da sempre i principali finanziatori dell’arte. Ma le preoccupazioni di Eschilo di custodire la tradizione all’interno della nuova società trovano spiegazione non in una sfiducia verso la democrazia, ma nella giustizia che essa può amministrare. E’ lui che fa dire ad Atena:
Né anarchia né dispotismo: questa è la regola che ai cittadini amanti della patria consiglio di osservare; e di non scacciare del tutto dalla città il timore perché senza il timore nessuno dei mortali opera secondo giustizia. E se voi, come dovete, avete timore e reverenza della maestà di questo istituto, il vostro paese e la vostra città avranno un baluardo di sicurezza quale nessun’altra gente conosce (…).Incorruttibile al lucro io voglio questo consiglio, e rispettoso del giusto; e inflessibile e pronto, vigile scolta che se anche gli altri dormono è desta.
Eschilo sfugge l’ingenuità giovanile di chi abbraccia il nuovo come sostituzione e soluzione del vecchio perché cosciente dell’instabilità della democrazia se questa non viene controllata, una coscienza che non gli viene solo dalla deduzione ma dalla semplice osservazione della realtà. Non a caso egli più volte, alla fine delle Eumenidi, richiama all’ordine e alla rettitudine i membri dell’Aeropago, ricordando la sacralità della sua istituzione, istituzione che aveva smarrito proprio durante i governi di Efialte e di Pericle, la sua reale funzione.
E non a caso la sua Atena sceglie di fare delle Erinni, la più pura rappresentanza della tradizione, organi garanti della giustizia all’interno del nuovo stato. L’Orestea diviene dunque la mitizzazione di un momento storico di cambiamento, quello del passaggio da una società arcaica e matriarcale fondata su valutazione interamente metafisica del mondo, ad una società democratica e patriarcale incentrata sulla rivalutazione dell’individuo sulla società. In fondo Oreste viene scagionato non perché la sua azione non venga ritenuta un reato, ma perché nella sua colpa egli è stato vittima di un corto circuito all’interno del sistema di leggi che costruiscono la giustizia universale arcaica. E’interessante notare come nelle Coefore egli abbia un attimo di esitazione, diviso tra l’uccidere la madre e lasciare invendicato il padre. Egli agisce non per subdolo piacere, ma perché in entrambi i casi l’eroe avrebbe violato la legge che la giustizia universale gli imponeva. Questo corto circuito nel suo sistema etico è sintomo di una società che sta cambiando e che necessità che le sue leggi cambino con essa, ogni qualvolta ”esistono tanti motivi per condannarlo quanti ve ne sono per assolverlo”, quando cioè gli elementi dialettici di quella società cominciano ad opporsi con un bilanciamento tale da annullarsi, e allora tutto quel che era alla base del suo dualismo, la giustizia come la colpa, viene a fondersi per essere ricostituito.
In una visione così limpida della società democratica, sembra quasi un involuzione quella che Eschilo compie parlando del terrore come di un elemento necessario a garantirne la compattezza. Più volte il tragediografo, nella persona della dea Atena richiama l’Aeropago ad amministrare la giustizia senza scacciare mai via la paura ed il timore perché “chi degli uomini infatti è giusto se nulla teme?”
Ed alle Erinni, che del terrore sono le amministratici più fedeli fa dire:
E’ bene talvolta il terrore… Chi mai, o città o uomo mortale, che non abbia avuto nel cuore nessun’ansia, finche vivo, potrà tuttavia venerare Giustizia?
Quel che appare in Eschilo una ritrattazione su se stesso, si rivela in realtà la sua ennesima preoccupazione di garantire nella nuova società democratica, la giustizia, alla ricerca della quale egli dico tutta la sua vita, e che si pone forse all’origine stessa di quella sua profonda religiosità.
Egli chiede all’Aeropago di amministrare la giustizia con la stessa bilancia del principe machiavellico, ma il terrore di cui parla Eschilo altri non può essere che l’autocoscienza della colpa. Atena spoglia le Erinni del loro compito di fomentare il senso di colpa e lo affida alla coscienza degli uomini. Se nessuna giustizia universale ha più ragione d’essere in una società democratica in cui è l’individuo e non più la colpa ad essere giudicata, egli deve avere maggiore coscienza delle sue azioni e delle conseguenze che ne derivano, positive o negative che siano, pronto a riceverne i meriti come le condanne. L’individualità di cui la democrazia fa dono al cittadino infatti, si rivela in una maggiore libertà dell’agire che è anche una maggiore responsabilità da gestire.
Orbene, alla luce dello stato attuale delle cose, e se è vero che Eschilo lasciò la sua polis democratica per andare a vivere i suoi ultimi anni di vita in Sicilia, sotto la tranquilla tirannide di Gerone, viene allora da chiedersi se il tragediografo non cambiò mai idea riguardo la dea Atena e quella sua insana idea di mandare le Erinni in pensione…